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Radio Shabelle chiude dopo un’irruzione della polizia

Spesso ci troviamo a sognare un lavoro in radio, spesso ci lamentiamo o critichiamo (io per primo) questo o quello speaker perché forse non merita quel posto o perché ci è arrivato con un percorso diverso da quello che fanno i comuni mortali, spesso ci convinciamo di quanto siamo le persone adatte per riempire uno spazio radiofonico. Spesso, troppo spesso, parliamo di quanto amiamo la radio senza nemmeno capirne il motivo vero, senza essere disponibili a fare tutti i sacrifici e gli studi richiesti, ma solo perché ci troviamo bene e allora pensiamo che quello sia il posto adatto a noi e che prima o poi qualcosa succederà.

C’è qualcuno invece che della radio ha bisogno sul serio, non per diventare famoso o per desiderio di realizzarsi, ma per divulgare un messaggio, esprimere le proprie opinioni in un territorio in cui addirittura questo non è permesso e raccontare la verità. La verità che spesso nelle nostre emittenti viene distorta oppure modificata per volere dello spettacolo, per avere più ascolti o per cercare uno scoop. La verità invece in questo caso ha un peso ancora maggiore, perché porta al prezzo più caro da pagare: la chiusura di un’emittente, l’arresto, tutta la strumentazione prelevata e, in alcuni casi, la morte.

Mi riferisco a Radio Shabelle, un’emittente radio-televisiva indipendente somala, di cui avevo parlato in un altro articolo di qualche mese fa (https://www.radiospeaker.it/blog/fare-radio-shabelle-chiede-aiuto-513.html) raccontando la storia di uno dei Direttori di questa radio ucciso dal regime perché andava contro alla tipologia di comunicazione e divulgazione che loro avevano in mente.

Il tempo passa ma la storia si ripete, fortunatamente senza conseguenze così gravi ma con un’azione comunque molto discutibile: è infatti notizia di poche ore fa che Radio Shabelle e Sky FM (emittenti gemelle che hanno sede nello stesso stabile) hanno chiuso i loro uffici, che come forse ricorderete erano situati vicino ad un aeroporto di proprietà del Ministero dei Trasporti per evitare le incursioni dei soldati del regime somalo e sono stati privati di tutta la loro strumentazione e addirittura del poco denaro che tenevano da parte.

Chiusura di Radio Shabelle

Diciamo che sono stati obbligati a chiudere, visto che sabato mattina verso le 11.30, per ordine del Ministro dell’interno Abdikarim Hussein Guled, cento uomini della polizia politica della Somalia hanno compiuto un raid brutale nella sede della radio malmenando tutti i presenti, fra cui diverse donne, e arrestando trentasei giornalisti su sessantotto determinando, così, la cessazione delle trasmissioni. Questo intervento così brutale è stato giustificato dalle forze dell’ordine come dovuto visto che la radio occupava uno stabile del Ministero dei Trasporti illegalmente e che quello stabile ora serviva allo stesso Ministero il quale aveva già chiesto la liberazione dell’edificio dando un ultimatum di cinque giorni che era scaduto da poco, ma nessuno degli addetti lo aveva abbandonato o aveva accettato le condizioni poste dal Ministero visto che Radio Shabelle dichiarava di aver trovato da tempo un accordo col Governo fino al 2015 e si impegnava anche a ristrutturare l’edificio.

Ora, al di là delle vicende politiche, sono altre le informazioni che ci interessano e che sono molto gravi: in primo luogo la morte di un giornalista, alcuni giorni dopo questa irruzione, addirittura il diciannovesimo decesso negli ultimi mesi (11 di questi giornalisti morti lavoravano a Radio Shabelle). A cui si aggiungono i vari Direttori di cui vi avevo già parlato. L’arresto dell’Editore delle due emittenti, Abdi Malik Yusuf Mohamud per non aver rispettato le direttive imposte. Ma soprattutto il fatto che la polizia irrompa in questo modo nell’edificio, malmenando tutti quelli che si trova davanti e arrivando addirittura a prelevare tutta la strumentazione in possesso dell’emittente (incluso l’archivio radiofonico e il server delle trasmissioni), causandone la chiusura e sottraendo perfino i 370 dollari presenti nella cassaforte.

In serata poi, giornalisti e editore erano stati rilasciati ma la strumentazione non è ancora stata restituita. Il tutto mentre, con molto coraggio e fedeli al loro intento di comunicazione, giornalisti e conduttori raccontavano in onda quello che succedeva, descrivendo l’irruzione addirittura anche mentre venivano arrestati. Radio che tra l’altro non era solo diventata un luogo di lavoro ma un casa vera e propria: infatti i 19 giornalisti uccisi che vi ho citato poco fa erano stati tutti colpiti nel tragitto casa-lavoro e per questo all’interno della struttura era stata predisposta una zona per accogliere coloro che avevano deciso di vivere direttamente in radio per evitare altre tragedie. Invece le forze di polizia hanno fatto tutto da sole e hanno preso con la violenza l’emittente stessa privandola della possibilità di proseguire nel suo lavoro. Speriamo di sentire nei prossimi giorni aggiornamenti positivi su questa radio, sia per i giornalisti coinvolti sia per la possibilità di farli tornare a trasmettere.

Questo succede perché in alcune parti del mondo la libertà di parola o di comunicare ancora non è riconosciuta, soprattutto quando quello che si dice va apertamente contro la linea di pensiero tenuta dal Governo e si cerca di convincere la popolazione di questo. Sono centinaia i casi di violenza come questi e Radio Shabelle ne è forse la rappresentante più illustre. Speriamo che tutte queste brutalità possano finire al più presto e proviamo a riflettere ogni tanto su come l’amore per la radio e per la possibilità di dire quello che si pensa, lanciando un messaggio di protesta scomodo per chi comanda, a volte possano costare così caro. Noi abbiamo la fortuna di poter parlare e dire più o meno quello che ci pare, altri purtroppo no.

Fonti: Ansa.it, Repubblica.it

Articolo a cura di Nicola Zaltieri

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