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Albertino: “Oggi si è persa la gavetta”

Albertino: “Oggi si è persa la gavetta”

Albertino, direttore e conduttore di Radio m2o, dice la sua sul mondo della radio e del clubbing di oggi in un’intervista rilasciata a Rolling Stone.

Il dj spiega com’è arrivato a dirigere l’emittente del Gruppo GEDI: “Veramente, quando nel 1994 Cecchetto lasciò Radio Deejay la direzione artistica assieme a mio fratello, l’ho seguita pure io. Magari per molti non è così, nel senso che io non è che mi sforzassi di apparire o di farmi notare, ma nella realtà dei fatti invece è andata esattamente in questo modo. Per molti anni. Questo mi ha permesso quindi di fare un po’ di esperienza, nel ruolo. E in più devo dire che fare scouting dietro le quinte o farmi venire idee sui palinsesti è sempre stato nelle mie corde, tanto quanto il mettermi in prima linea come voce e conduttore. Senza contare che molti slogan e claim che nascevano nel mio programma, beh, diventavano assolutamente fondamentali per l’identità della radio. Quindi ecco: non è che arrivo dal nulla. Se ora dirigo una radio, è perché lo so fare, perché di una radio conosco vari aspetti, anche quelli più stupidi e pratici – io per dire so giudicare il lavoro di un fonico, perché pure io ho passato anni a cablare gli studi e a fare i volumi, mettendoci le mani. Si chiama gavetta. Ecco, se c’è una cosa che si è persa oggi è la gavetta“.

“Una volta iniziavi a fare il dj per passione, non per soldi”

Successivamente spiega cosa vuol dire fare il dj oggi: “È molto più desiderabile rispetto a dieci, venti anni fa, rispetto a quando ho iniziato io. Ma per i motivi sbagliati. Quando ho iniziato io l’unica cosa che contava era la passione per la musica. Nemmeno ti passava per la testa di costruire delle strategie, di ragionare sui guadagni, di puntare alla celebrità: che diavolo di celebrità potevi avere, a fare il dj? Non era manco un mestiere”.

“Poi i soldi e la fama sono arrivati. Ma non ce ne fregava nulla, in origine. Eravamo incoscienti. Ci lanciavamo nel vuoto, senza avere la più pallida idea di cosa potesse aspettarci e di cosa davvero potevamo ottenere davvero. E trovo abbastanza assurdo che questa cosa, questa incoscienza – che dovrebbe essere tipica della giovane età – oggi invece non ci sia, si sia quasi del tutto persa. Tutti attenti fin da subito a fare calcoli, a fare la cosa giusta al momento giusto. Il vero problema è che del nostro lavoro si vede solo una parte: solo quella bella. È come se all’improvviso i sacrifici, le rinunce, la fatica non esistessero più. Basta, scomparsi. È il classico “tutto subito” che caratterizza il mondo ai tempi dei social: quel che conta è diventare famosi in modo veloce, senza fatica, e se lo diventi senza talento, beh, vuol dire allora che sei ancora più bravo. Si è iniziato a permettere alle persone di pensare che tutti possono diventare personaggi, tutti possono diventare protagonisti. Nessuno più si accontenta di essere spettatore. Tutti divorati dall’ansia di apparire. Non c’è più la consapevolezza della fatica, della gavetta da fare, della cultura e professionalità da approfondire. Tutto questo si è perso”.

Non è un discorso già sentito in merito ai dj di una volta? “Chi diceva certe cose è perché non aveva capito nulla di quello che facevamo, di quello che stavamo facendo. Punto. Mentre se oggi si dicono certe cose è perché effettivamente nel nostro settore si può diventare famosi senza aver fatto quasi un cazzo. Torniamo al punto: la gavetta. Bisogna riportarla in auge. S’è persa”.

Oggi un altro grande equivoco attorno alla figura del dj è quello del producer. Un esempio: Calvin Harris. Un mostro come producer. Su quello siamo d’accordo tutti. Ma lui non è un dj. Lo è diventato per necessità. Perché glielo chiedeva il mercato, era il modo per venderlo. Che lui suoni bene o male, come dj, non cambia nulla: con la scusa che si presenta come dj e che fa un dj set, allora bisogna dargli 800 mila euro, il suo valore di mercato è diventato questo, ed è completamente indipendente da quanto sia bravo a mixare, da quanto sia accurata la scelta dei pezzi nel suo set. Non sto dicendo che non valga quei soldi. Ma non puoi venderlo come dj set, il suo show. Eppure, è quello che succede. C’è un po’ troppa confusione… Un tempo, se eri Giorgio Moroder, comunque al momento di fare I Feel Love facevi un passo indietro e il brano era di Donna Summer, mentre oggi per come vanno le cose ci sarebbe il nome di Moroder e caratteri cubitali e sotto, scritto in piccolo piccolo, featuring Donna Summer. Sono perplesso…”.

Albertino: “Non voglio rappresentare un settore che raggira la legge”

Albertino ricorda poi Claudio Coccoluto, scomparso il 2 marzo scorso, e commenta la questione discoteche: “C’è sicuramente un terribile vuoto di rappresentanza, ora che Claudio non c’è più. Vuoto di rappresentanza plasticamente raffigurato dal fatto che siamo l’unica categoria che non viene considerata dalle istituzioni, nelle varie misure per la ripartenza. L’unica. Ne parlavo col mio amico Tito Pinton, gestore del Muretto a Jesolo e di Musica a Riccione: noi, come sistema, non abbiamo avuto nessun tipo di reazione, o di compattezza, o di sinergia. Per questo non ci penso nemmeno a fare il paladino delle discoteche: un settore che non è nemmeno in grado di unirsi in un momento di emergenza? Di un settore che si è sforzato al massimo di trovare dei modi di raggirare la legge, mettendo tre tavoli a caso in qualche locale e figurando come ristorante, per poi aprire e far comunque ballare la gente? Non me la sento. Chiaro: ci hanno messo nella situazione di dover aggirare la legge, e forse tutto questo non dovevamo accettarlo, non dovevamo caderci. Anche se è un discorso complesso, perché capisco che c’è anche chi ha disperatamente bisogno di lavorare anche solo per sopravvivere. Va bene. Bisognerebbe finalmente iniziare a distinguere i club dalle discoteche. Far crescere i primi, soprattutto”.

Poi continua: “Non è che voglio sputare nel piatto dove ho mangiato per anni, no, è che certi locali commerciali degli anni ’90 – te ne cito uno, il Genux, ma potrei citarne mille – erano una figata. Erano posti cioè dove c’era investimento e c’era professionalità, dove c’erano idee. Oggi? Oggi ci sono i club, quelli portati avanti da gente che in un’idea ci crede più o meno davvero e che ha una conoscenza della materia; e ci sono invece le discoteche e discotechine improvvisate, portate avanti da gente che ha il doppio lavoro e che piazza come direttori artistici ragazzini senza esperienza e, soprattutto, senza cultura. Posti che come proposta artistica offrono esattamente quello che potrebbe offrire un qualsiasi pub con degli spazi all’aperto: differenza, zero. Poi mi dicono “Eh, ma i festival stanno uccidendo i club, il clubbing”: ma ci credo che li uccidono! Perché i veri club si contano sulle dita di due mani, e il resto sono cose ridicole, senza anima, senza idee. Forse dovremmo iniziare un po’ a renderci conto della situazione. Capire in cosa dovremmo migliorare e su cosa dovremmo tornare a lavorare, come idee e professionalità. Metti mai che se lo facciamo forse tornano a prenderci in considerazione?”.

Francesco Pinardi

Francesco Pinardi

Conduttore radiofonico, speaker, giornalista e studente di Scienze della Comunicazione presso l'Università degli Studi di Torino. Leggi i miei articoli

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